Hojo Fan City

 

 

 

Data File

Rated G - Prosa

 

Autore: Paola

Status: Completa

Serie: City Hunter

 

Total: 10 capitoli

Pubblicato: 03-06-05

Ultimo aggiornamento: 02-12-05

 

Commenti: 12 reviews

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General

 

Disclaimer: I personaggi di "Dietro l'ingannevole velo delle apparenze" sono proprietà esclusiva di Tsukasa Hojo.

 

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   Fanfiction :: Dietro l'ingannevole velo delle apparenze

 

Capitolo 6 :: Ricordi

Pubblicato: 12-08-05 - Ultimo aggiornamento: 12-08-05

Commenti: Mi scuso in anticipo per il lungo e triste capitolo, devo essere stata colta dalla sindrome della dattilografa e da una grave crisi di depressione. In blu troverete i dialoghi che ho preso dal manga City Hunter (volume secondo, edizione Starlight, mensile numero 41).

 


Capitolo: 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10


 

 

 

 

 

Ryo Saeba non aveva sempre avuto quel nome  

 

 

 

Ricordi

 

 

Ryo Saeba non aveva sempre avuto quel nome. Lo stesso Ryo ignorava quale nome gli avessero dato alla nascita, come lo chiamassero i suoi genitori. Non ricordava neanche che volto avessero suo padre e sua madre.

 

I suoi ricordi cominciavano quando bambino, unico superstite di un incidente aereo, si era ritrovato a vagare spaventato in una giungla del Centro America, in un paese governato da una dittatura militare. Lì era stato trovato ferito e affamato da un gruppo di guerriglieri che lo avevano "adottato", preso con sé nel loro villaggio, dove lo avevano addestrato a combattere contro l’esercito governativo. Erano diventati quelli la sua "famiglia" e le fredde e mortali armi avevano preso il posto dei suoi giochi, in un mondo rozzo e crudele.

 

A dargli quel nome era stato un giapponese, un guerrigliero di nome Shin Kaibara, che gli aveva fatto da padre e da padrino.

 

Ryo aveva dovuto imparare a difendersi da solo, a contare esclusivamente sulle proprie forze, ad uccidere per poter sopravvivere, a rimanere sveglio, anche per giorni, per non cadere nelle mani dei nemici. E verso questi, dimostrare di non avere alcuna pietà o esitazione.

 

Ricordava ancora gli spari, le esplosioni, la polvere sollevata dalle bombe sganciate dai mercenari, l’odore del sangue mischiato al fango, della carne in cancrena, le urla strazianti di chi moriva, confondersi con i boati dei tuoni.

 

La morte gli aleggiava accanto dall’infanzia e l’aveva vista un centinaio di volte negli occhi dei compagni feriti in battaglia, agonizzanti tra le pozzanghere di sangue, nel gelido volto dei nemici.

 

E gettando uno sguardo sui corpi dilaniati, vittime e complici di quella guerra sanguinaria, si era chiesto innumerevoli volte quando la morte l’avrebbe trascinato con sé. Ma era rimasto in vita.

 

Proprio quando il suo animo ammalato si era stancato di vivere in quel modo, quando avrebbe voluto veramente morire, sprofondare nella nebbia della notte e lì spegnersi per sempre in un istante, la guerra finì, i guerriglieri persero e lui con loro fu espulso dal paese.

 

Era uscito dalla guerra, infine.

 

Vivo, ma assassino, con un bagaglio di incubi che ancora lo tormentavano, che cercava di dissolvere ubriacandosi, desiderando un sonno senza sogni. E affondandosi nel presente, nei suoi piaceri brevi ed effimeri, desiderava l’oblio, restando, tuttavia, irrimediabilmente incatenato al suo passato.

 

Ryo viaggiò molto per l’America, prima di giungere negli Stati Uniti con alcuni suoi compagni d’armi. Uno di questi, gli propose di diventare suo partner come sweeper, killer a pagamento, all’occorrenza ladro, spia, guardia del corpo. Accettò, ma più che una scelta, una possibilità, quella era stata una logica conseguenza della sua vita passata. Non aveva fatto altro che uccidere, maneggiare armi e costruire trappole, non sapeva fare altro, inoltre, lui, risultava morto, come vivo era un clandestino. La sua libertà senza anagrafe non serviva a nulla, poteva solo continuare a vivere al di fuori della legge, cercando per lo meno di fare qualcosa di utile, spazzando via un po’ di marcio da quel mondo in cui era stato gettato.

 

Poi un giorno, il suo destino cambiò nuovamente. Braccato da un’organizzazione mafiosa che lo voleva morto, abbandonò gli Stati Uniti e si trasferì in Giappone. Tra le tante città in cui avrebbe potuto trasferirsi, la scelta cadde su Tokyo, la grande capitale orientale. Fu lì che conobbe un uomo, un certo Hideyuki Makimura. Lavorava per la polizia e per la giustizia provava una sorta di devozione.

 

Non sembrava un tipo sveglio, aveva un aspetto insignificante, le spalle curve perennemente coperte da un lungo impermeabile, due occhi tristi e stanchi dietro un paio d’occhiali dalle lenti ambrate. Ma Ryo dovette ben presto ricredersi delle sue considerazioni affrettate. Makimura era diverso dagli altri poliziotti, prova del fatto era, che la prima volta che aveva incontrato city hunter, potendolo arrestare, non lo aveva fatto.

 

"Sei un criminale, ma hai eliminato gran parte della feccia di questa città, persino i malviventi ti temono… Certo, i tuoi metodi sono poco ortodossi, ma abbiamo qualcosa in comune…" gli aveva detto mettendo da parte le manette, guardandolo dritto in faccia con occhi divenuti improvvisamente penetranti e attenti. Avevano qualcosa in comune: odiavano il male.

 

La stima e il rispetto che i due uomini provavano l’uno verso l’altro, si trasformarono ben presto in sincera amicizia. Collaborarono spesso e allo sweeper non dispiaceva affatto, anche perché, l’investigatore faceva coppia con una bellissima donna di nome Saeko Nogami, una vera femme fatale, capace di manipolare gli uomini con la stessa naturalezza con cui indossava i suoi abiti succinti. Trattava gli individui di sesso opposto al pari di animali domestici: bastava qualche sua moina, qualche promessa sussurrata all’orecchio con voce calda e sensuale, e abbindolati, cascavano ai suoi piedi, disposti persino a donarle la luna. Ryo ne era stato irresistibilmente attratto e aveva finito per lavorare per lei centinaia di volte, senza ricevere niente di quanto sperato in cambio.

 

Makimura e Nogami erano una coppia affiatata, erano riusciti a portare a termine numerosissimi casi finché, un giorno si trovarono ad indagare sulla misteriosa scomparsa di trenta ragazze. Bastò catturare qualche pesce piccolo per venire a sapere che a monte di quei rapimenti c’era un’organizzazione malavitosa che si occupava della tratta di donne, merce umana da vendere e immettere nel vasto mercato della prostituzione. Non avevano indizi, non riuscivano a trovarli e molte altre ragazze continuavano a scomparire in diverse regioni del Paese. Divennero impazienti e decisero di usare un’esca per aiutare le indagini. Mandarono in giro diverse agenti per i quartieri più a rischio e come previsto, una di loro fu catturata, ma qualcosa andò storto, i criminali si accorsero di loro e assassinarono l’agente. Makimura si assunse tutta la responsabilità e poco dopo lasciò la polizia. Fu allora che divenne socio di Ryo, svolgendo soprattutto il ruolo di intermediario. Non confidò mai all’amico il motivo che lo aveva spinto ad abbandonare il suo lavoro di investigatore, e se lo sweeper cercava di affrontare l’argomento, Makimura si incupiva e si chiudeva in un serrato mutismo. Ryo venne a sapere quella storia molti anni dopo, ma non per bocca del poliziotto, bensì dalle irresistibili labbra di Saeko, quando, ricominciate le sparizioni di ragazze a Tokyo, l’affascinante investigatrice, chiese l’aiuto del city hunter per riuscire finalmente a mettersi nella giusta pista, facendo lei stessa da esca.

 

Ryo si stupiva sempre ripensando alla sua amicizia con Hideyuki Makimura; quell’uomo era il suo esatto opposto: paziente, razionale, riservato, completamente votato al dovere, estremamente timido e impacciato con le donne. Odiava la violenza e, a differenza di Ryo, che a volte non esitava a far fuori i malviventi con la sua Magnum, il collega preferiva usare affilati coltelli, far arrestare, piuttosto che uccidere. Così, la maggior parte delle volte, ritornava a casa pieno di tagli, ferite ed ematomi.

 

Silenzioso e misurato nelle parole, messa da parte la propria riservatezza, Hideyuki si era dimostrato essere un gran chiacchierone, dotato di un sottile e disarmante senso dell’umorismo. Confidava a Ryo molti aspetti della sua vita privata, lagnandosi spesso di voler possedere un minimo di intraprendenza, quel tanto che gli consentisse di vincere l’inettitudine, l’imbarazzo, l’impappinamento che lo coglievano ogni qual volta si trovasse sul punto di dichiarare il proprio amore a Saeko. L’argomento preferito dell’ ex poliziotto, tuttavia, restava la sua sorellina minore, Kaori, a cui faceva da tutore, amico, padre e fratello. Ne parlava sempre con orgoglio, proprio come fa un genitore quando parla del proprio figlio, elogiandone i pregi e biasimandone affettuosamente i difetti.

 

A forza di sentirne parlare, Ryo si era fatto quasi subito una vaga idea del caratterino di quella ragazza. A parer suo, doveva essere un maschiaccio dai modi violenti, testarda, ostinata e apprensiva. Non si era sbagliato poi molto. La prima volta che l’aveva incontrata, l’aveva scambiata per un ragazzino e non era riuscito a togliersela dalle scatole, neanche facendo ricorso al suo linguaggio più crudo e alle sue minacce più pesanti, determinata com’era a voler conoscere da vicino il nuovo "ambiente lavorativo" del fratello.

 

Più di una volta l’ex poliziotto gli aveva rivelato quanto la sorella disapprovasse il suo nuovo incarico e che prima o poi si sarebbe trovato nella situazione di doverlo abbandonare. Odiava arrecarle dispiaceri, ma da quando era uscito dalla polizia, trovandosi a più a stretto contatto con la malavita, finiva sempre più spesso sotto le cure di Kaori. Non trovava giusto che già all’età di sedici anni, la sua sorellina sapesse medicare e bendare ferite con la medesima abilità di una crocerossina.

 

Per Ryo che aveva l’inclinazione alla vita notturna e si proferiva uno scapolo irriducibile, Hideyuki risultò essere un cattivo compagno di baldoria perché si addormentava sempre in piedi.

 

Tra tutti i ricordi che conservava di Makimura, estremamente divertenti erano le "dissertazioni sull’ira della sorella". Lo sweeper aveva soprannominato così le interminabili lavate di capo a cui Kaori sottoponeva Hideyuki quando, preoccupata che gli fosse capitato qualcosa, rimaneva ad aspettarlo in piedi tutta la notte, per poi vederselo comparire l’indomani mattina, vittima del dopo sbronza. Lavate di capo che puntualmente il collega gli riportava parola per parola, aggiungendo che se sua sorella si era arrabbiata, era tutta colpa sua, perché lo aveva fatto ubriacare e portato in chissà quali postacci.

 

Ryo rispondeva sempre divertito: "Hideyuki, non sono io a farti ubriacare, sei tu che non reggi quasi per niente l’alcool, finisci KO dopo qualche birra…"

 

"Certo, peccato che, invece di riportarmi a casa, mi trascini in locali in cui non metterei mai piede da sobrio…"

 

"Non fare l’offeso, ieri sera hai pure fatto colpo…"

 

"Dici sul serio?!"

 

"Si, era un bel donnone del gay bar di Erika, sapessi che occhi dolci che ti faceva, ora che ci penso ti ha pure baciato…"

 

Hideyuki raccapricciava ogni volta, gridandogli di finirla, ma Ryo continuava descrivendo il bacio fin nei minimi dettagli, finché l’amico seccato non gli assestava un pugno in testa, uscendo dalla stanza con la fronte aggrottata di chi fa l’immane sforzo di ricordare qualcosa che forse sarebbe meglio dimenticare.

 

E assieme ai ricordi divertenti c’erano anche quelli tristi, quelli di un’uggiosa mattina di fine marzo, quando, seduto su una panchina di un parco, il suo migliore amico gli aveva confidato il suo più grande segreto.

 

"Domani è il trentuno…" disse Hideyuki sfogliando l’agendina, su cui segnava i luoghi e gli orari degli appuntamenti con i clienti. Strabuzzò gli occhi stupito, quando vide il messaggio che le aveva lasciato la sorella, occupando, con la sua elegante scrittura femminile, tutto lo spazio disponibile del riquadro 31: "E’ il mio compleanno, Maki! Non t’azzardare a prendere impegni di lavoro per oggi! Kaori"

 

"E vero… E’ il suo compleanno!" esclamò triste, riponendo l’agendina in tasca e prendendo ad osservare pensieroso l’orizzonte. Ryo gli sedeva accanto con le gambe incrociate, apparentemente distratto, il volto puntato verso il cielo grigio e le nuvole cariche di pioggia.

 

"Sono passati venti anni, ormai, mio padre faceva il poliziotto!" gli confidò improvvisamente Makimura dopo un breve silenzio, "Un giorno portò a casa una bambina e disse: – da oggi è tua sorella! – quella bambina era Kaori. Era la figlia di un omicida, che morì schiantandosi con la macchina mentre mio padre lo inseguiva per catturarlo; Kaori non aveva più la mamma, e nemmeno altri parenti, così mio padre la adottò".

 

Ryo annuì mentre Maki tirava fuori da una tasca interna dell’impermeabile un cofanetto. Lo aprì, c’era un anello.

 

"Ricordo" continuò il collega "che certe volte, quando lui guardava quest’anello si rattristava… Era della madre di Kaori… Quando compirà vent’anni, diceva, glielo darò e le racconterò tutta la verità, però… Solo cinque anni dopo, mio padre morì, così adesso tocca a me… le dirò ciò che avrebbe voluto dirle lui! Stasera le racconterò la storia che c’è dietro questo anello, le dirò di suo padre e di sua madre…"

 

Era una verità triste, pensò Ryo, ma non disse nulla. Pensò anche che il passato a volte faceva male, il suo, come quello di altri, non era meglio dimenticare tutto?

 

"Il cielo sta per mettersi a piangere; in giornate come queste, le vecchie ferite fanno ancora più male…" riuscì a dire solo questo all’amico, sollevandosi dalla panchina.

 

Ma Hideyuki non aveva mai potuto rivelare la verità a Kaori, perché alle sette di sera di quello stesso giorno, nonostante Ryo si fosse offerto di andare al posto suo, si era recato al Silky Club, dove avrebbe dovuto incontrare un cliente. Quel locale non era decisamente il più tranquillo dei posti, Ryo lo aveva avvertito, consigliandogli anche di portare con sé una pistola.

 

Era arrivato in orario, le sette spaccate, puntuale come sempre, ed era entrato in quell’enorme sala che era il Silky Club. Al centro del locale c’era un enorme palco, sopra il quale si esibivano, illuminate dalla luce artificiale dei faretti, una decina di ballerine, dai volti sorridenti e i costumi quasi del tutto inesistenti, che alimentavano appetiti diversi dalla fame; e intorno ad esso, ordinatamente disposti, c’erano dei tavoli rettangolari, intorno ai quali sedevano uomini, che cenavano, chiacchieravano e si godevano lo spettacolo. Si guardò in giro, assordato dai bassi ritmici della musica ad alto volume. Il suo aspetto trasandato e dimesso, strideva con lo sfarzoso lusso del mobilio, l’eleganza delle giacche e delle cravatte dei raffinati signori seduti ai tavoli, si sentì fuori posto. Non passò molto tempo che un uomo gli fece cenno di seguirlo, conducendolo in un’altra saletta laterale, nascosta da una pesante tenda di broccato. La tenda fu chiusa alle sue spalle, non appena si trovò al cospetto del proprietario del locale, che lo invitò a sedersi. Quell’uomo non gli piacque da subito, c’era qualcosa di viscido e subdolo in lui. Era canuto, aveva un mento pronunciato e un sorriso falsamente tirato, che scopriva denti bianchi e porcellanati. Gli occhi, nascosti dietro un paio di occhiali dalla raffinata montatura, erano freddi e privi di scrupoli. Le mani erano curate, senza calli e imperfezioni. Mani che nella vita non avevano fatto altro che dilettarsi a contar denaro, a dar cenni e ordini ai sottoposti, a sfiorare pelli di donne sempre diverse, sempre disposte a farsi toccare da quelle mani che non avevano mai conosciuto la fatica del lavoro. Dietro di lui, in piedi, due uomini vestiti di nero, nascondevano sotto la giacca delle pistole. Il cliente, Makimura non lo riconobbe subito, ma era un membro di un organizzazione mafiosa dal nome Unione Teope. L’incarico era semplice: un omicidio. L’uomo che city hunter avrebbe dovuto uccidere era il padrino della cosca che controllava Tokyo e dintorni, Tadashi Nishioka.

 

Quei tipi se li erano studiati proprio bene i loro piani, pensò Hideyuki, aspiravano a far fuori la concorrenza per fare valanghe di soldi ottenendo il pieno controllo del mercato giapponese della droga. Disgustato rifiutò l’incarico. Non sarebbe mai sceso a patti col diavolo, non voleva immischiarsi in quegli sporchi affari, che si ammazzassero tra loro.

 

Ma quella, non era gente disposta ad accettare un no come risposta.

 

Cercarono di dargli una lezione già all’interno del locale. I due uomini in nero tentarono di puntargli contro la canna delle loro pistole; tuttavia la sua abilità con i coltelli gli salvò la vita. Non li uccise, non era capace di uccidere, si limitò a recidere loro i tendini della mano, e a minacciare il canuto signore, seduto di fronte a lui, premendogli la pistola contro la fronte.

 

Uscì dal locale e fuori pioveva.

 

In auto, cercò di dimenticarsi del Silky Club e dell’orribile gente che vi stava all’interno, pensando che tra un po’ avrebbe cenato in compagnia di Ryo e sua sorella. Sicuramente, si diceva, Kaori, per far colpo sul palato dell’ospite, aveva cucinato i suoi piatti migliori. Ci doveva essere anche la torta, perché quella mezzanotte la sua sorellina avrebbe compiuto vent’anni e lui le avrebbe dato l’anello, le avrebbe detto che le voleva bene, immensamente, ma non era il suo vero fratello, che i genitori verso i quali aveva provato nostalgia tante volte, tempestandolo di domande quando era piccola, sui perché, sui percome, sull’odore che avevano, sulla musica che preferivano, non erano i suoi veri genitori.

 

La pioggia sferzava sui finestrini, il cielo nero e buio era spezzato dai lampi. Non mancava molto per arrivare a casa, quando i fari della sua auto illuminarono il suo assassino. Era un uomo, un gigante, tanto alto quanto muscoloso, lo sguardo vuoto e il sorrisetto sinistro. Si lanciò sull’auto in corsa, facendolo sbandare, un solo pugno di quell’essere, bastò per mandare in frantumi il finestrino dell’auto. Hideyuki si sentì improvvisamente soffocare, attraverso il finestrino rotto, il folle gigante tentava di spezzargli il collo. L’ex poliziotto sterzò bruscamente verso il muro che costeggiava la strada, frenò e scaraventato l’omone lontano. Mentre usciva dalla macchina cercando di riprendere fiato, quel demonio gli ricomparve davanti, per nulla intaccato dall’impatto. C’era qualcosa di sovrannaturale in quell’uomo, che dichiarava di essere superman, che lo guardava con occhi senz’anima, che rimaneva in vita nonostante gli avesse scaricato in pieno petto l’intero caricatore della sua Magnum. Poi improvvisamente si ricordò della polvere degli angeli. Quell’uomo era drogato, imbottito fino al midollo di PCP, la droga che inghiottiva l’anima in cambio di forza e resistenza sovraumane. Era perduto.

 

 

Ryo guardò il cielo sconsolato, sbuffando. Riparato dalla pioggia, sotto i portici del palazzo in cui abitava, aspettava che Hideyuki lo venisse a prendere. In giro non si vedeva nessuno, non passava neanche una macchina. Che tempaccio, forse sarebbe stato meglio rimanere a casa, come diavolo si era convinto ad andare a quella cena? Forse perché gli piaceva la compagnia di Makimura, forse perché voleva incontrare di nuovo quella ragazza…

 

L’aria era fredda e tagliente, la città odorava di terra bagnata, mentre la pioggia continuava a cadere a dirotto.

 

Il vento portò alle sue orecchie l’eco lontano di passi stanchi e le pozzanghere si tinsero di rosso. Si voltò improvvisamente versò l’ombra tremante di un uomo ferito.

 

"Maki!"

 

L’amico senza forze gli precipitò fra le braccia.

 

"Dio mio…" disse vedendo la schiena trafitta da un pezzo di lamiera, l’impermeabile lacero, impregnato di pioggia e di sangue.

 

"La polvere… la polvere degli angeli…" gli sussurrò Hideyuki.

 

"La polvere degli angeli?!"

 

"Sono quelli dell’Unione Teope… Visto che modi?" mormorò ironico, il respiro quasi assente. E in quel silenzio ovattato dalla pioggia, Ryo si ritrovò a pensare a Kaori.

 

"Vuoi che dica qualcosa a Kaori?" chiese, senza riuscire a guardarlo negli occhi, che sapeva offuscati dal dolore.

 

Hideyuki strinse in una mano il cofanetto che gli aveva mostrato quella stessa mattina.

 

"L’anello… per favore… abbi cura di lei…" disse in un faticoso sospiro, prima di chiudere gli occhi per sempre, lasciando Ryo nuovamente solo.

 

 

Il 31 marzo del 1985, fu quel giorno che Kaori decise del suo futuro, il giorno del suo ventesimo compleanno.

 

Tutta la notte aveva aspettato il ritorno di suo fratello e quando suonarono alla porta, scoprì che Hideyuki non sarebbe più tornato a casa.

 

Era Ryo. Indossava l’impermeabile di Maki, logoro e strappato. Portava con sé una valigia.

 

La tavola apparecchiata per tre persone era ancora imbandita. L’aroma di cibo impregnava le pareti del piccolo appartamento.

 

"Non sono venuto per cenare, mi spiace…" le disse entrando, porgendole una scatoletta.

 

Un anello.

 

"Che significa?"

 

"E’ un ricordo di tuo fratello, voleva regalartelo…" Non era riuscito a dirle la verità, la storia triste di quel dono, soprattutto ora che Hideyuki era morto, così, quello che doveva essere un ricordo della madre di Kaori era diventato quello di suo fratello.

 

Kaori non disse nulla, improvvisamente divenuta pallida, lo guardò con occhi smarriti, pieni di ombre e paure. Immobile, come un bersaglio che aspetta di essere colpito inesorabilmente da una freccia. E lui era il carnefice che scoccava il dardo.

 

"E’ stato ucciso da quelli dell’Unione Teope, dei mafiosi che stanno cercando di mettere le mani sul mercato della droga! Quello che ha fatto ammazzare tuo fratello l’ ho già sistemato!" Inutile usare eufemismi, giri di parole per renderle una verità che per quanto edulcorata non sarebbe cambiata e poi non potevano perdere altro tempo, presto quelli dell’Unione Teope si sarebbero messi sulle tracce della ragazza e, temendo che potesse essere a conoscenza dei loro sporchi traffici, non si sarebbero di certo fatti scrupoli di ucciderla. Kaori era in pericolo, doveva andare via da quella città, lasciarsi tutto dietro le spalle, farsi una nuova vita, altrove.

 

Silenzio.

 

Gli occhi di Kaori continuavano a fissarlo.

 

Occhi, incerti, impauriti, ma asciutti.

 

"Non piangi? Sei molto forte! Del resto non c’è tempo di piangere!"

 

Ryo aprì la valigia, piena di soldi.

 

"Questi li ho prelevati dalla sede dell’Unione Teope! Devi portarli via tu!"

 

"Soldi? Portarli via?"

 

"Sì! Ci siamo messi contro un’intera organizzazione mafiosa! Hanno detto che uccideranno me, e poi sarà il tuo turno!"

 

"IO?! Ma che c’entro?!"

 

"E’ il loro modo d’agire, cancellare tutti gli individui potenzialmente pericolosi! Preparati, dobbiamo sbrigarci!"

 

Fuggire? Perché sarebbe dovuta fuggire? Scappare via, per andar dove? Non aveva avuto nessun altro al mondo se non suo fratello. Era stato lui il suo compagno di giochi nella sua infanzia, lui l’aveva accompagnata all’asilo il primo giorno di scuola, lui l’aveva aiutata a fare i compiti, era Maki che le faceva le raccomandazioni prima di uscire di casa, che la esortava a comportarsi come una signorina dabbene, di non picchiare i compagni, anche quando li credeva in torto, di non essere un maschiaccio. Era sempre lui che le rimboccava le coperte quando lei faceva finta di dormire, dopo che l’aveva aspettato in piedi tutta la notte, lo stesso Maki che le raccontava del suo lavoro e di Ryo, e che adesso non c’era più. Si sentì improvvisamente sola.

 

Una lacrima fuggì dai suoi occhi e le scivolò sulla guancia.

 

"Dai, non piangere… Non ne hai il tempo!"

 

Già, non doveva piangere, non serviva a nulla, le sue lacrime non avrebbero riportato in vita Maki. Doveva essere forte, coraggiosa, suo fratello glielo diceva sempre.

 

Asciugò in fretta le lacrime.

 

"Io non piango. Neanche io lascio la città! E’ qui… E’ qui che c’è da fare!" disse decisa, senza dubbi negli occhi o tremore nella voce.

 

Non aveva nessuna voglia di scappare. Fuggono solo i codardi e lei non lo era mai stata.

 

"Tu hai bisogno di un nuovo aiutante!"

 

Il suo sguardo non ammetteva repliche.

 

Kaori aveva deciso di diventare la nuova partner di City Hunter, anche se così facendo, si era ritrovata in un mondo a lei del tutto estraneo, fatto di malvagità, sparatorie, lotte tra bande rivali, mercenari, vendette. Ma mai aveva perso la sua voglia di vivere, di andare avanti. Le piaceva lavorare con Ryo, le permetteva di conoscere tante persone, di aiutarle. Inizialmente, seguire le orme del fratello era stato un modo per sentirlo ancora vicino a sé, un modo per conoscerlo meglio, per capire il motivo che lo aveva spinto ad abbandonare il suo lavoro di poliziotto per far da partner ad un pervertito quale era e continuava ad essere lo sweeper. Era divertente lavorare con Ryo, imprevedibile com’era, con le sue bizzarrie comportamentali, i suoi mokkori, i suoi attacchi notturni alle clienti, i suoi modi a volte poco ortodossi.

 

Con il tempo aveva imparato a capirne le stranezze, certo sempre condannando alcuni suoi comportamenti troppo licenziosi, che puniva irrimediabilmente con un pesante martello o un appuntito konpetito, ma con lui si sentiva nuovamente a casa, protetta. Per quanto a volte cercasse di negarlo anche a se stessa, aveva finito con l’innamorarsi di un uomo che possedeva più difetti che pregi: trasandato, incostante, maleducato, scansafatiche, sporcaccione, spendaccione, maniaco, donnaiolo eppure coraggioso, protettivo, gentile, generoso, altruista. E per quanto razionalmente si sforzasse nel convincersi a disinnamorarsi di lui, il suo cuore non ne era proprio capace.

 

 

Se c’era qualcosa che non mancava a Ryo, questo qualcosa erano sicuramente le donne. Aveva avuto molte amanti nella sua vita; non doveva fare molto perché le donne cascassero ai suoi piedi, ci sapeva fare, ed era un bel ragazzo, ma di nessuna si era mai innamorato, nessuna lo aveva reso vulnerabile. Distante, lasciava che il suo spirito restasse inafferrabile e lontano.

 

La guerra lo aveva cambiato, si era nutrito di odio per così tanto tempo che a lungo si era creduto incapace di amare.

 

Ma come spesso gli capitò nella vita, dovette ricredersi. Un bel giorno, accadde, si innamorò, ma non di una persona qualunque, di una bella donna incontrata per strada o di un’affascinante cliente; ironia della sorte, finì con l’amare proprio quella ragazza per cui, aveva giurato tante volte, non avrebbe mai perso la testa.

 

Sin dalla prima volta che l’aveva vista ne era rimasto affascinato e da quel giorno l’aveva sempre osservata con curiosità e inconfessabile tenerezza. Il suo coraggio da guerriera lo faceva ammutolire di ammirazione, determinata com’era nel portare avanti le sue scelte, senza lasciarsi abbattere dagli ostacoli, senza lasciarsi scoraggiare dalle correnti avverse, ma quando la vedeva cedere gli sembrava così fragile, una bambina, ed era vinto dal desiderio di proteggerla. Improvvisamente si era ritrovato legato a lei da numerosissimi fili, saldamente intrecciati tra loro. Fili che aveva cercato di recidere, di indebolire, ma quelli si erano fatti più saldi.

 

Dal giorno in cui aveva conosciuto Kaori non aveva più cercato un occasione per morire, per liberarsi da quell’incubo che era la sua vita. Per anni aveva cercato una ragione di vita e adesso l’aveva trovata. Quella donna lo aveva cambiato, gli aveva infuso la sua voglia di vivere, aveva incrinato la sua perfetta solitudine, era diventata la sua famiglia, quella che non aveva mai avuto, ma che aveva sempre desiderato possedere.

 

Saperla vicina gli infondeva sicurezza, gli dava la forza per andare avanti, per affrontare ogni cosa, intraprendere ogni strada senza il pericolo di perdersi e annullarsi nel suo mondo fatto di sangue ed armi, lo stesso mondo in cui l’aveva vigliaccamente coinvolta; perché se inizialmente l’aveva presa con sé per poterla più facilmente difenderla dagli uomini che ne volevano la morte, quando poi avrebbe potuto lasciarla andare, non ci era riuscito. Come fare a meno di lei, della sua voce, dell’affetto delle sue carezze, del guardarla negli occhi e capirla senza parlare… Egoisticamente la voleva tutta per sé, al suo fianco, anche se così facendo l’avrebbe messa in pericolo…

 

Sparò. Il proiettile centrò il bersaglio all’altezza del cuore. Un colpo e sentì la rabbia contro se stesso scivolargli via dall’animo. Premette nuovamente il grilletto, questa volta furono i suoi dubbi a svanire, il terzo proiettile si portò via le sue paure, il quarto…

 

Passi. Qualcuno stava scendendo le scale che conducevano al poligono. Passi quasi impercettibili e leggeri, poi sempre più concreti, finché non avvertì nitidamente una presenza dietro di lui.

 

Lasciò partire un altro proiettile dalla sua Magnum.

 

"Allora è vero, la tua abilità con la pistola non è solo una leggenda…"

 

"Haruko…" disse voltandosi verso la donna, "o forse preferisci che ti chiami Angel…". La voce quasi involontariamente gli uscì dura e severa.

 

"Fai un po’ tu, in fondo sei tu che preferisci che Kaori non sappia niente!"

 

"Già". Non le aveva ancora detto niente. Come se questo potesse servire a qualcosa…

 

"Quando dovrò entrare in azione?" domandò.

 

"Presto, molto presto… Non preoccuparti, mi toglierò dai piedi prima di quanto credi…" gli fece sapere facendo per andarsene, ma Ryo l’afferrò per un braccio, l’avvicinò a sé e di nuovo quegli occhi scuri la trapassarono leggendogli dentro.

 

"Sai Angel, i tuoi occhi sono molto belli, ma… profondamente tristi".

 

"Che sciocchezze dici?" gli chiese, ma istintivamente abbassò lo sguardo.

 

"Sono infelici perché hanno perso qualcosa, qualcosa che non potranno più avere indietro, perché la Morte non ti rende mai ciò che trascina con sé…"

 

Ryo sentì il corpo di Angel irrigidirsi, gelare e rabbrividire nell’anima.

 

"Lasciami…" sussurrò la ragazza. E in quel sussurro lo sconfortante desiderio di abbandonarsi, lasciarsi scivolare in un abisso. La presa di Ryo si fece più forte, quasi a impedirle di precipitare.

 

"Vuoi ucciderlo come ha ucciso tua sorella? E’ così, Angel?"

 

Sua sorella, Isabel…

 

Angel sentì il suo cuore bloccarsi per un istante. Vacillò. Tremò. Migliaia di ricordi le invasero la mente, le percossero l’animo, rapidi, come fotogrammi impazziti, corsero davanti ai suoi occhi. E in un attimo si ritrovò di fronte all’appartamento di sua sorella. La porta della casa, socchiusa. Silenzio. Non un suono, né un sussurro ad accoglierla, solo il frastuono del traffico proveniente da fuori.

 

– Isabel, – la sua voce si perse nell’appartamento – dove sei? Sei pronta? Guarda che la prenotazione al ristorante non ce la riservano per tutta la vita…– Nessuna risposta le venne data di ritorno. – Isabel, stai male? – In quel momento c’era qualcosa che non le piaceva in tutta la casa, qualcosa di indefinibile, che andava dal silenzio all’orribile tanfo di chiuso. – Isabel, sei in bagno? Isabel, guarda che se mi spunti all’improvviso per farmi paura me la paghi! – La porta del bagno era aperta e dentro non c’era un’anima. – Isabel – la sua voce aumentò di qualche decibel, in una tonalità quasi isterica. La porta della camera da letto era chiusa. – Isabel – Nessuna risposta. Nessun rumore. Provò a girare la maniglia. Perché si era chiusa a chiave? Bussò forte col pugno, tre, quattro volte, finché capì che sua sorella non le avrebbe mai aperto. Si scaraventò sulla porta con forza, con rabbia, disperazione, fino a quando non la buttò giù a spallate. Entrò in quel buio che si faceva penombra, aspirando aria che sapeva di morte. – Isabel – chiamò con un filo di voce.

 

Cercò di respirare profondamente, ma si sentì mancare l’ossigeno. L’aria si era fatta improvvisamente fetida e rarefatta. Si avvicinò tremando al letto della sorella. La debole voce del vento entrò dalla finestra spalancata, giunse alle sue orecchie come canto lamentoso. Il chiarore vago e sfuggente della luna illuminò il fragile corpo di Isabel disteso, i suoi lunghi capelli sciolti sulle lenzuola, sul seno scoperto. Gli occhi vuoti e cechi fissi sul soffitto, i lineamenti trasparenti, bloccati in un’espressione di orrore. Si chinò su di lei, le sfiorò una mano, dura e fredda come il ghiaccio. Il cuore le si riempì di terrore, un urlo lacerante le uscì dalla gola. Si lasciò cadere a terra in un angolo buio della stanza. Si sedette e pianse. Sopraffatta dalla disperazione, lasciò scorrere le lacrime sul suo volto finché non si esaurirono.

 

 

Sentì qualcuno afferrarla per le spalle, scuoterla fino a riportarla alla realtà, nell’istante presente.

 

"Angel…"

 

Avrebbe voluto piangere, ma non una lacrima le rigò il viso. Le aveva versate tutte le sue lacrime.

 

"Aiutami" sussurrò all’uomo che la reggeva. "Aiutami a catturare chi me l’ ha portata via…"

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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